Uno degli aspetti davvero apprezzabili del cinema di Bong Joon-ho è che dietro alle storie apparentemente naif e ai suoi personaggi caricaturali, che fanno assomigliare i suoi film a dei live action tratti dai manga più disparati – specie l’ultimo in cui l’eco de Il mio vicino Totoro si distingue chiaramente – è che oltre la facciata esportabile e vendibile del prodotto ci sia qualcosa, più che di criticamente esposto, di sarcasticamente sommesso, come una risata malcelata, uno scherno preso così alla larga da abbracciare pubblici diversi, generi diversi e temi diversi, senza però tradire il tostissimo messaggio di fondo.

Okja (Joon-ho Bong, 2017), recentissima produzione Netflix presentata – non senza polemiche – all’ultima edizione del Festival di Cannes e uploadata sulla piattaforma a poco più di un mese dall’evento, è un divertente (ma non troppo) adventure movie fantaecologico in cui spiccano supermaiali antropomorfi, una ragazzina eroica dalla salda morale, un gruppo di animalisti maldestri e una compagnia multinazionale tanto avida quanto ipocrita. Condito dal tipico humour orientale che tutto alleggerisce e intenerisce offrendo al dramma pochi ma buoni spazi d’azione, il film racconta la storia di Okja, uno dei tanti maiali di nuova generazione allevati in diverse zone del mondo per motivi di studio e promozione nell’ottica di una produzione intensiva che possa porre rimedio alla fame nel mondo.

Okja è un enorme e insolito pachiderma dall’intelligenza straordinaria che, assieme alla sua “padroncina” Mija, vive libero e sereno nelle foreste coreane. Trascorso il decennio utile per far prosperare i ventisei maiali in giro per il mondo, Okja è il capo scelto dalla Mirando Corporation per presentare il prodotto “biologico, ecosostenibile e fottutamente buono” che salverà l’umanità. Approntato l’imminente trasferimento a New York, dove avverrà la presentazione in mondovisione, la multinazionale dovrà scontrarsi con gli affetti e gli ideali, diretti e indiretti, di chi nel maiale vede non carne da macello, ma un essere perfettamente senziente.

Per quanto i villain siano sopra le righe e apparentemente innocui – sia Lucy e Nancy Mirando, le amministratrici gemelle interpretate dalla fenomenale Tilda Swinton, sia il bieco presentatore/zoologo Johnny Wilcox vestito da Jake Gyllenhaal – tanto da ricordare per sfiga e cialtroneria il trio Drombo di Yattaman; per quanto l’ALF – gli ecoterroristi accorsi in aiuto di Okja – appaia assolutamente inadeguato e incoerente e per quanto Mija/Seo-Hyun Ahn sembri ben più agile e temeraria delle ragazzine della sua età, ciò che non viene mai meno è il delicato e autentico equilibrio tra il discorso politicamente corretto (il messaggio ecologico e sociale) e il monito sottilmente scorretto (lo sfottò rivolto all’intero sistema culturale statunitense).

A ben guardare, infatti, la compresenza USA/Corea del Sud che ha reso possibile la realizzazione del film, all’interno della storia finisce per diventare una discriminante in grado di marcare le differenze tra l’identità genetica e quella sociale, tra gli effetti culturali e gli effetti naturali, tra i comportamenti estetici ed etici, tra le logiche economiche e le pulsioni sentimentali qui sistematicamente assegnate ai due diversi Paesi. In Okja non sembrano esserci tanto i buoni e i cattivi, bensì i coreani e gli americani intesi come individui liberi e individui assoggettati. Il discorso, allora, è tutto culturale e il lungo viaggio che Mija affronterà per riportare a casa Okja rappresenterà un’incursione (dis)formativa nella terra delle false possibilità, delle manifestazioni mediate e ingannevoli, delle verità negate e delle atrocità occultate, la patria dell’incoerenza dove anche la giustizia è un concetto irreparabilmente inquinato.

Mija è un’Alice nel paese degli orrori che diventa grande senza seguire il mantra del “eat me”, mentre la Grande Mela, almeno questa volta, sembra essere incredibilmente piccola… Spietatissimo Bong Joon-ho!



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